Itinerario di 12 giorni “zaino in spalla” alla scoperta dell’isola indonesiana

Il primo gennaio 2024, sul treno tra Purwokerto e Yogyakarta, pieno di soli indonesiani, guardando il bellissimo panorama di boschi tropicali e risaie, mi chiedo se questo mio continuo viaggiare sia una vera necessità di scoprire il mondo o se invece sia una fuga dalla vita quotidiana per paura di mettere troppe radici?

Un pensiero profondo: dovrei iniziare a scrivere romanzi di viaggio o diventare un Youtuber; o forse parlarne con uno psicologo. O più semplicemente iniziare a trasformare tutto in una storia per il blog del mio amico Carlo…

Da qua comincia il racconto del mio viaggio, non dalla partenza, bensì dal momento in cui istintivamente ho preso carta e penna. Un viaggio breve, 12 giorni “zaino in spalla” per la parte occidentale e centrale dell’isola di Giava, nella quale non ho visto i posti più belli della mia vita, però la gentilezza dei locals mi rimarrà impressa per sempre; 12 giorni tra città caotiche, vulcani attivi e spiagge remote per surfisti. Dal 2016 – ovvero dal mio rientro in Italia dopo alcuni anni di studio e lavoro tra Spagna e Irlanda – fino a oggi ho viaggiato abbastanza fuori Europa, almeno quanto mi è stato possibile per soldi risparmiati, tempo a disposizione e alcuni contrattempi pandemici (non so se sapete a cosa mi riferisco!): Cuba, Giamaica, Tailandia, Palestina, Messico, Panama; e adesso Indonesia. Viaggi sempre low-cost, in pieno spirito backpacker e con il desiderio di scoprire le diverse culture.

A Giava quasi nessuno parla inglese (sicuramente Bali è molto più turistica) e spesso ti guardano sorpresi come un alieno: bianco, 189 cm di altezza e numerosi tatuaggi. Persino nella capitale Giacarta, non certo un remoto villaggio di campagna, alcuni adolescenti mi hanno chiesto di fare una foto con loro. Insomma, a differenza di tutti gli altri posti che ho visto, qua noi viaggiatori europei non passiamo di certo inosservati.

Giacarta, la capitale

Ma adesso torniamo al vero inizio, al 24 dicembre: vi risparmio il racconto dei voli Milano-Doha e Doha-Giacarta perché, per una persona della mia statura e che perdipiù dorme con difficoltà sugli aerei, corrispondono a una mezza tortura. Però le scomodità non mi hanno mai tirato indietro, e nemmeno a 42 anni ci riescono; e allora avanti tutta! Dunque, dopo più di 24 ore di viaggio da Savona a Giacarta, il mio itinerario natalizio inizia dalla capitale indonesiana…

Jakarta

…una città che non merita più di un giorno di visita, belli da vedere l’antica area coloniale di Batavia (solo arrivato in loco ho scoperto che l’Indonesia era un’antica colonia olandese… la mia ignoranza non ha limiti!), l’enorme piazza/giardino centrale Merdeka e nei dintorni la più grande Moschea del sud-est asiatico (sì, Giava è un’isola a stragrande maggioranza musulmana; mentre Bali è principalmente induista) a pochi metri dalla Cattedrale: nonostante sia ateo, rimango sempre affascinato dai luoghi con ampia diversità religiosa.

Nella città ovunque sventolano bandiere palestinesi, il che mi fa molto piacere vista la situazione in cui si trova in questo momento la popolazione di Gaza. Interessante anche il quartiere cinese di Glodok. Per il resto è una città piena di traffico (a livelli impensabili!!!), smog e distanze enormi da un lato all’altro, sicuramente non a misura d’uomo. Un giorno merita, non di più. Io ho avuto il piacere di condividere il tempo a Giacarta con Lucas, un ragazzo argentino conosciuto in ostello, entrambi appena arrivati e curiosi di girovagare insieme per la città.

Bandung, una piccola perla … “Never look back in anger

La seconda tappa del mio viaggio è stata Bandung, volevo andare lì nella speranza di poter andare a vedere il vulcano Tangkuban Perahu. Appena arrivato in ostello chiedo subito informazioni per sapere se ci sono escursioni organizzate a piedi, però purtroppo offrono solo gite in bus perché questo vulcano è l’unico – o uno dei pochi – in Indonesia che può essere raggiunto con i mezzi fino alla cima; una sorta di piazzola “Instagram” per le famigliole locali, certamente non quello che cerco io, amante del trekking e delle esperienze poco turistiche. Dunque niente vulcano? Assolutamente no, perché per fortuna in ostello incrocio l’unico altro europeo presente (pochi backpackers e tanti turisti indonesiani/asiatici); anche in questo caso, eravamo entrambi appena arrivati e gli propongo l’escursione per il giorno dopo: ad Alex, l’inglese che sta girando il mondo dopo essersi preso un anno sabbatico dal suo lavoro da scienziato, piace l’idea e ci accordiamo per partire il giorno dopo alle 7.30, in modo da poter fare il giro in mattinata e cercare di evitare i temporali pomeridiani, tipici di questa stagione delle piogge. Prima però ci uniamo a un ragazzo indonesiano, Boxi, che sta andando a un caffè-ristorante panoramico sulle alture della città ed è felice di portarsi dietro due europei. Dopo 40 minuti di taxi (tranquilli, i prezzi non sono come a Savona, abbiamo pagato pochi euro a testa tra andata e ritorno) arriviamo in questo posto incantevole con una vista su tutta la città: il Cafe Senja, con tutti locals, tra giovani coppiette e gruppetti di adolescenti. Una bella sorpresa, prendiamo un tè e mangiamo un riso semi-vegetariano (ho dovuto scartare i wurstel, che non ho capito come ci siano finiti dentro!).


Che dire del cibo indonesiano? Da vegetariano è sempre un po’ dura quando si viaggia, poi senza la possibilità di comunicare in lingua, si finisce spesso a mangiare le stesse cose: in questo caso, in Indonesia, si tratta di Mie goreng (spaghetti saltati), Nasi goreng (riso saltato), tofu e tempeh. Ma non viaggio per mangiare, dunque mi sono sempre adattato anche se a volte un po’ di fame l’ho patita.

CIbo indonesiano
Mie Goreng

Il trekking al vulcano Tangkuban Perahu

Come detto, la mattina successiva si parte per la camminata al vulcano. Con un po’ di ritardo accademico, alle 8.15 io e l’inglese Alex usciamo dall’ostello pensando di fare tutto in mattinata. Poco dopo ci rendiamo conto che la giornata sarà più lunga di quanto previsto: solo per fare una quindicina di kilometri con i due angkot (piccoli pulmini che funzionano come taxi condivisi) impieghiamo circa 2 ore.

Vulcano Tangkuban
Trekking per il Vulcano Tangkuban Perahu

Ma siamo contenti, insieme a noi viaggiano signore con la borsa della spesa e altri simpatici personaggi che, chiaramente, ci guardano con curiosità. Arrivati nel paesino di Lembang, ci incamminiamo verso l’inizio del sentiero sterrato dove paghiamo 8000 Rupie per l’ingresso (circa 50 centesimi di euro) e, immediatamente consapevoli della totale assenza di segnaletica, cominciamo la nostra scalata al vulcano che durerà circa 3,5 ore di salita non eccessivamente faticosa ma con uno scenario bellissimo, un mix tra pini e foresta equatoriale.

In mezzo a tutto questo, ci sono stati vari aneddoti per i quali fino all’ultimo non eravamo sicuri di poter raggiungere il cratere perché, come dicevo prima, la mancanza di segnaletica non ci agevolava molto le cose: alcuni insulti, molto pacati ed educati in stile asiatico, da parte di un poliziotto o presunto tale perché eravamo finiti in un’area privata, una sorta di campeggio; più volte abbiamo perso il sentiero, finendo anche nell’area di accesso dei pullman dove volevano farci pagare altri 200.000 Rupie (12€) per fare l’ultimo pezzo sull’asfalto; con Google Translator (da linguista l’ho sempre maledetto ma in questo caso ci è venuto comodo) dicevamo ai custodi che noi avevamo già pagato per l’altro sentiero e che ci eravamo persi, sperando di intenerirli. Niente, ci hanno spediti via – visto che non volevamo pagare per il cammino asfaltato – e ci siamo sentiti della serie: “Se morite nella giungla, cavoli vostri!”.

Alla fine non siamo morti: scegliendo una mappa incontrata su AllTrails siamo arrivati in cima al vulcano. C’era una certa nebbiolina (i fumi del vulcano si mischiavano alle nuvole basse) però eravamo felicissimi di essere arrivati.

Nonostante le disavventure nel cammino e la non certezza di riuscire a trovare il sentiero giusto, la compagnia di Alex (camminatore esperto) mi ha permesso di rimanere tranquillo anche in mezzo ai sentieri improvvisati. Arrivati al cratere, ci siamo resi conto di essere rientrati in quella che noi chiamavamo l’area VIP (ovvero dove volevano farci pagare le già citate 200.000 Rupie). Abbiamo implorato di farci passare perché avevamo paura di perderci se fossimo ritornati indietro dallo stesso sentiero senza segnaletica. In parte era vero (erano già le 3 del pomeriggio e non volevamo che si facesse buio), in parte volevamo scendere dall’altro versante dove si passava da delle pozze naturali di acqua vulcanica; le nostre tenere facce, stanche dalla salita, li hanno convinti e ci hanno fatto passare.

Dopo due passi in mezzo ai turisti indonesiani impegnati a farsi i selfie sul vulcano, individuiamo il sentiero di ritorno che scopriamo essere chiuso per noi comuni mortali; stavamo dunque per scendere dalla strada asfaltata – sicuramente più noiosa – ma l’aver accolto l’offerta di una guida del posto (120.000 Rupie in tutto… lui ovviamente era partito da 200.000) ci spalanca le porte magiche del desiderato sentiero.

Fumi del vulcano
Fumi del vulcano

Il simpatico uomo, abitante della zona che ogni tanto raccatta qualche turista, ci ha dunque accompagnato nella discesa, dove ci siamo soffermati mezz’oretta nella pozze vulcaniche: attenzione a dove decidete di fare il “pediluvio”, non fate come me che dopo aver messo i piedi a bagno in una pozza già molto calda, ho voluto provare “l’upgrade” e non ricordo esattamente quale parolaccia sia uscita dalla mia bocca appena ho pucciato l’alluce e ho sentito il fuoco!! In quel momento non avevo pensato che le bollicine nell’acqua forse segnalavano una temperatura vicino ai 100 gradi: chi mi conosce sa che non ho un istinto molto scientifico.

Nel tornare indietro, abbiamo anche chiesto al nostro angelo custode se durante il nostro girovagare nella selva eravamo stati fortunati a non essere stati divorati da qualche bestia feroce, tipo i serpenti (di cui sono terrorizzato!); ma lui ci risponde che l’odore di zolfo li tiene lontani e che al massimo avremmo potuto incontrare qualche scimmia (fatto!) o cinghiali (non fatto, ma tanto sono già abituato a loro qua a Savona). Ritornati dunque sulla strada asfaltata, camminiamo fino al primo villaggio e poi chiamiamo un Grab, una sorta di Uber asiatico, e anche questa volta ci mettiamo due ore prima di arrivare all’ostello, stanchi ma pienamente soddisfatti della giornata trascorsa.

Rock n' roll Indonesiano
Rock ‘n roll Indonesiano

Troviamo ancora le forze di uscire la sera per una birra insieme, ed entrati in uno dei pochi pub della città (per via della religione, l’alcool si trovava solo in determinati locali) veniamo accolti – unici due europei presenti nel locale – da una cover band indonesiana, tanto entusiasta da dedicarci immediatamente una canzone in inglese: Don’t look back in anger degli Oasis, che abbiamo cantato tutti insieme appassionatamente.

Surfare (male) a Batu Karas

Il giorno successivo decido di andare in una piccola località della costa, Batu Karas, nota per il surf, con la speranza di trovare una bella spiaggia dove trascorrere un paio di giorni di relax e magari cavalcare qualche piccola onda, piccola piccola (beh, che dire del surf: uno dei più grandi fallimenti della mia vita sin dai tempi dell’Erasmus a Gran Canaria, però è una storia troppo lunga da raccontare in questa breve parentesi). Dopo circa 7 ore di bus da Bandung a Pangandaran, la cittadina principale di quella parte di costa, prendo l’unico mezzo possibile per percorrere i 30 km rimanenti per arrivare all’ostello: un mototaxi, in Indonesia chiamato Gojek. Contratto sul prezzo, come sempre, e si parte: sarà perché aveva appena tramontato ed era tutto buio, sarà perché aveva piovuto e la strada era bagnata, sarà perché ero senza casco (cosa che a 16 anni adoravo ma forse a 42 la vedo in modo diverso) o forse sarà perché in Indonesia guidano come pazzi… fatto sta che è stato un viaggio infernale nel quale mi studiavo mentalmente come limitare il più possibile i danni in caso di caduta: triplo salto mortale subito dopo lo scontro frontale con un camion oppure una chiusura a riccio e conseguente rotolata in pieno stile SuperSonic in caso di scivolata in curva; beh, chi mi conosce sa che non sono particolarmente noto per la mia agilità. Dunque, in realtà ho passato il viaggio aspettando la morte mentre pensieri profondi attraversavano la mia testa. Ma alla fine la caduta non c’è stata e sono arrivato magicamente sano e salvo all’alloggio.

Passo dunque due notti in questo surf spot, Batu Karas; il posto è carino, pochissima gente in giro, salvo esserci la spiaggia strapiena di turisti mordi-e-fuggi che arrivano con i pullman gran turismo al mattino e tornano indietro alla sera (a noi liguri questo ricorda forse qualcosa?). Riassumendo: estremamente tranquillo, in ostello eravamo solo in due, spiagge in generale non paradisiache e con la zona per i surfisti principianti particolarmente affollata. Aspetto positivo: un paio di onde sono riuscito a cavalcarle, evvai! Se ci fosse stata qualche anima viva in più in ostello sarei rimasto probabilmente ancora un giorno; però due notti erano già abbastanza, e allora la mattina del 31 dicembre decido di ripartire e scelgo una città più o meno a caso in direzione est: Purwokerto, convinto che qualche bar aperto per capodanno ci sia e che possa farmi un giorno di relax in un ambiente un po’ più vivo. Vista l’assenza di ostelli, prenoto allora un hotel abbastanza carino (24€ a notte, unico giorno dove ho speso più di 11€ per dormire) e lascio il mare. Prendo 4 mezzi di trasporto per arrivare a destinazione: prima un Gojek per raggiungere la strada principale, poi un Angkot per ritornare a Pangandaran, dov’ero arrivato con il bus due giorni prima; lì alla fermata scopro che non ci sono più mezzi diretti per arrivare alla mia destinazione (a differenza di quanto mi aveva detto il tizio dell’ostello!) però magicamente ritrovo un simpatico ragazzo indonesiano che avevo visto sul pullman due giorni prima; l’unico che parlava inglese nel raggio di qualche chilometro e che mi aiuta a trovare una soluzione. Tutto molto semplice: una donna anziana alla fermata chiama un signore, probabilmente suo marito, cugino, fratello o vicino di casa, che arriva con il solito scooterino 125. Fatto sta che per 100.000 Rupie (6€) si offre di portarmi a Sidareja, a “soli” 40 km di distanza dove dovrei trovare un bus. Sarà perché in questo caso c’era il sole, sarà perché il signore in questione era un vecchietto cauto, almeno per gli standard locali – ad esempio, non sorpassava mai in curva – o sarà perché la gente che ci superava mi salutava con curiosità (chissà cosa ci faceva questo bianco su quello scooter!) il viaggio è stato molto meno traumatico, quasi piacevole… fino a quando abbiamo scoperto che a Sidareja non c’erano autobus per la mia direzione e il simpatico vecchietto ha deciso senza consultarmi (anche perché non parlava nemmeno una parola di inglese) di portarmi alla statale successiva, altri 20 km che per le mie natiche sono stati una mezza tortura.

Arrivati alla fermata del bus, ovviamente – e direi anche giustamente – il prezzo è salito (160.000 rupie, 10€, dopo aver contrattato e ribassato la sua richiesta di 200.000 Rupie). Arrivo dunque in questa famosa cittadina, Purwokerto, che risulta essere desolante, almeno quel giorno, grazie a un fortissimo temporale nel tardo pomeriggio, alla chiusura del ristorante arabo che avevo scelto per un trattamento speciale di fine anno e alla successiva impossibilità di trovare altri posti. Nessun problema, non sono mai stato un grande fan delle celebrazioni di capodanno, dunque alle 10 di sera rientro in albergo e, complice anche la comodità del lettone dopo alcune notti in ostello, senza volerlo mi addormento prima della mezzanotte. Poco male! Buon 2024 a tutti voi e a presto per la seconda parte del viaggio…

Categorie: Backpacking

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